La storia della pasta mista, ‘ammiscata’ per dirla alla napoletana, è una storia di fame, miseria, povertà ma soprattutto d’amore. Perché? Lo scoprirete alla fine del racconto.
Ci sono storie che nascono nelle strade più antiche di Napoli e si tramandano di generazione in generazione. Storie di pietanze, di cibo, di profumi, di sapori. Ma anche storie di fame, di povertà, di lavoro pagato alla giornata, di scarsità di ogni bene che faceva diventare l’emergenza una condizione di normalità.
E’ la storia della pasta mista, la pasta ‘ammiscata’ per dirla alla napoletana, quella che mi viene raccontata da mia nonna e che trascrivo sulle pagine di questo spazio web, facendola passare con la stessa arte della narrazione da un’epoca all’altra.
Siamo negli anni ’50, è appena finita una guerra che ha lasciato per le strade fame e miseria in tutte le forme immaginabili. Sì, perché si tratta di miseria se una donna di casa deve aspettare il marito per andare allo spaccio sotto casa per comprare dei pomodori, un misurino d’olio e mezzo chilo di ‘pasta ammiscata’. Una donna che può essere ‘fresca sposa’, come si dice a Napoli, oppure con 4, 5 figli a seguito. Una donna che manda avanti una casa in cui la sera, come racconta Filomena Marturano in uno dei suoi monologhi, c’è un solo piatto e nun saccio quante forchette.
La spesa si faceva la sera, dopo le otto. Quando il capofamiglia tornava dalla stancante giornata di lavoro al porto, al cantiere, alla bottega. La spesa era giornaliera. Non come quella a cui ci siamo abituati oggi. Non si scendeva per andare al supermercato una volta a settimana, ma si andava alla salumeria più vicino casa, quella in cui la proprietaria era una persona conosciuta, una persona cara, che ti faceva credito annotando tutto quello che spendevi sul ‘foglietiello’ di carta e poi ti faceva saldare a fine settimana. Ma quando non potevi permetterti il credito (perché, attenzione, non a tutti era concesso e non tutti volevano usufruirne per paura di non poter ottemperare all’obbligo), allora la spesa la facevi giorno per giorno contando le poche lire che portava a casa tuo marito e che a stento riuscivano a sfamare tutti. Così, la donna di casa usciva di sera, col freddo o con la pioggia, poco importa, e andava a comprare il necessario per la cena. Come detto: un misurino d’olio (perché non esistevano le bottiglie d’olio extravergine d’oliva che abbiamo oggi, nessuno poteva permettersele), qualche pomodorino e mezzo chilo di ‘pasta ammiscata’.
Perché tempo fa la pasta si vendeva a grammi, non era sezionata in pacchi come oggi. Esistevano dei grossi sacchi di telo che contenevano chili di pasta. Il proprietario dello spaccio ne prendeva un po’ per volta, a seconda di quanta ne veniva richiesta dal cliente. E la metteva in dei sacchetti di carta fatti al momento. La pasta che costava meno era quella ammiscata, perché era la rimanenza di tutti i sacchi di pasta che si vendeva durante il giorno. Erano degli spezzoni di pasta che era rimasta nei sacchi e che dunque in un modo o nell’altro andava smaltita, vendendola a prezzo ribassato. E’ per questo che la pasta mista, ammiscata, nasce da un ricordo di miseria, di fame, di povertà vera. Ma è allo stesso tempo un ricordo pregno di significato, di vita vissuta, di sacrificio e di amore. Perché una donna che scende a comprare quel poco che serve per sfamare la propria famiglia con i soldi che un uomo ha lavorato una giornata intera per ottenerli, non possono che raccontare una storia d’amore.
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